
Distratti da questo fottutissimo coronavirus (che, detto fra noi, o si sta accanendo sui politici e i loro entourage più ancora che sugli anziani cronici, o ci nascondono qualcosa), abbiamo colpevolmente trascurato una notizia ben più decisiva per le sorti della Nazione: a Roma si è appena insediato un procuratore capo che è una via di mezzo fra Socrate, Salomone a Papa Giovanni. Il suo nome è Michele Prestipino Giarritta, 63 anni, romano di famiglia siciliana, allievo prediletto del suo predecessore Giuseppe Pignatone, che ha seguito come un’ombra da Palermo a Reggio Calabria alla Capitale. Qualcuno dirà: ma un anno fa, quando la commissione del Csm votò a maggioranza per il Pg di Firenze Marcello Viola prima di mandare tutto all’aria,l’obiettivo non era la massima “discontinuità” con la fallimentare èra Pignatone? E, quando il “caso Palamara-Csm” svelò che la Procura pignatoniana era un nido di serpi che si denunciavano e si dossieravano l’una con l’altra, cercando sponde politiche e giudiziarie per far fuori il vicino di stanza, non si era detto di spalancare le finestre per far entrare aria buona e soprattutto un nuovo capo che venisse da fuori, anzi dal più lontano possibile? Tutto dimenticato: ora la parola d’ordine è “continuità”.
Del resto basta leggere le sobrie biografie dei giornaloni su cotanto prodigio togato per comprendere che era inutile cercare l’erba del vicino quando la migliore era lì, in casa,a portata di chiunque volesse coglierla. Repubblica: “Il magistrato schivo che ama Goethe e tradusse i pizzini di Provenzano”, “Prestipino nel nome di Bachelet”. Corriere della sera: “Prestipino e la buona eredità”. La Stampa: “Il romano atipico e filosofo mancato che non ama la tv”. Perbacco. Chi sospetta un eccesso di servo encomio non sa di chi stiamo parlando. Repubblica invece lo sa: un “magistrato cresciuto a verbali e intercettazioni” (quindi unico al mondo nel suo genere); “capace di ascoltare e tradurre mille dialetti e poi rifugiarsi nella lettura del classici, da Goethe a Dostoevskij, appassionarsi alla filosofia e rituffarsi nei pizzini di Provenzano” (Umberto Eco gli faceva una pippa); ha “modi da gentiluomo d’altri tempi in un temperamento che a tratti tradisce una veemenza da sbirro” (ma solo a tratti); “i suoi interrogatori non sono una passeggiata…” (fa domande, per dire); “…nessun aggettivo fuori posto, ma dritti al punto” (solo verbi e sostantivi, al massimo qualche segno di interpunzione); “niente inutili tintinni (sic) di manette ma l’effettività della sanzione” (che non decide lui, non essendo giudice, ma fa niente).
Altri dettagli decisivi li regala La Stampa: “In realtà è un filosofo mancato e se avesse seguito l’inclinazione liceale oggi non correrebbe dietro a Spada e Casamonica, ma a Kant e Aristotele come il padre Vincenzo… o a Marx e Lukàcs come lo zio Giuseppe”, ma fortunatamente tutto quel bendidio non è andato disperso perchè il nostro conserva “il metodo analitico”, “il gusto della scrittura” e “la passione smodata per la parola”. Mica pizza e fichi. Peccato – lacrima Repubblica – per quella “stanza in piccionaia, un andito stretto, nella mansarda del palazzone” che gli assegnano quando arriva a Palermo, incuranti del suo essere “affabile, sorridente ma sempre rigoroso” e del suo lesinare sul desinare “se non per un panino al bar di fronte”. Uno dice: quando poi va a Reggio, un ufficio decente gliel’avranno trovato? Nossignori: “la sua stanza è in fondo a un dedalo di corridoi che passano anche per i bagni. Nell’angolo remoto di un edificio mastodontico ma deserto”. Una vita di stenti. Ma allora ditelo che ce l’avete con lui. Dev’essere un complotto delle mafie, che lui riconosce a distanza di migliaia di km. Ad Avezzano, dove debutta in pretura, ha “già il primo incrocio con le mafie” (le temibili cosche abruzzesi, per non dire di quelle molisane). A Palermo, precoce com’è, “si occupa già di Cosa nostra prima ancora di cucirsi addosso la carica di sostituto antimafia” (lui non lo nomina il Csm come gli altri: si cuce addosso la carica). E, da Reggio, già “avvista la mafia romana prima di trasferirsi direttamente” nella Capitale. Più che un pm, è un binocolo vivente, un telescopio ambulante. Peccato che poi Mafia Capitale, frutto dell’intuito della “coppia di fatto” Pignatone-Prestipino, l’abbia smontata pezzo per pezzo la Cassazione. Una sconfitta? Non sia mai: “Su Mafia Capitale ha incassato i mutati orientamenti della Cassazione. Ma senza gridare al complotto” (forse perchè al complotto avrebbero dovuto gridare gli accusati di mafia e assolti).
In compenso – rassicura La Stampa – dopo tanti umidi scantinati e soffitte muffite, gli han dato finalmente un “ufficio”, dov’è “primo entrare e ultimo a uscire”. Ma, si badi bene, “non è di quelli che a pranzo se ne sta in ufficio da solo”, eh no: “capita di vederlo arrivare al baretto di piazzale Clodio e aggiungersi alla tavolata dei pm, se c’è un posto libero” (sedersi su un altro pm pare brutto, al gentiluomo d’altri tempi). Per il brindisi post-nomina, solo “spumante nei bicchieri di plastica ‘e manco ‘na pizzetta’”. C’era pure il pensionato Pignatone, nuovo capo del Tribunale Vaticano che – spiega Repubblica – “ha ricordato i successi di questi anni”. Quali, non è dato sapere: forse il crollo di Mafia Capitale, o le assoluzioni di Marino e Raggi, o le archiviazione di Muraro, Woodcock e Sciarelli, o la Cassazione che fa a pezzi l’arresto di De Vito, o i gip che prosciolgono Scafarto e respingono l’archiviazione di babbo Renzi&Romeo, o le non-indagini su Renzi&De Benedetti. Viene in mente Totò a Capri quando scopre l’autore di un quadro orripilante (“imitation de Picassò”) ed esclama solenne: “Il talento va premiato!”. Poi gli sputa in un occhio.
Fonte: Il Fatto Quotidiano – L’editoriale di Marco Travaglio